Perché in fondo la mia è un’arte che non tollera recensioni. Non per superbia, non per difesa, ma per natura. L’arte, se è viva, non accetta cornici estranee: respinge il tentativo di essere sezionata, spiegata, catalogata. La recensione, anche quando lusinghiera, è una gabbia: definisce, delimita, archivia. E così, nell’atto stesso di esaltare, sottrae respiro. L’intento di un’opera non può essere compreso fino in fondo, nemmeno quando l’artista lo svela. Ciò che io pongo sulla pagina o nel suono nasce da uno strappo, da un tremore, da un’urgenza che sfugge al controllo del linguaggio. Il logos, con tutta la sua presunta chiarezza, è un guscio troppo stretto. Ecco perché la recensione fallisce: tenta di fissare ciò che non sta fermo. Chi vuole recensire, in fondo, cerca di appropriarsi di un senso, di dare un nome all’ignoto che vibra tra le parole e i silenzi. Ma nominare è già tradire. Non si può dissezionare il respiro di un’opera senza spegnerne il battito.
Così rifiuto le recensioni. Non come atto di chiusura, ma come difesa dell’aperto. Non come gesto di arroganza, ma come atto di pudore: perché l’arte, la mia almeno, è un varco che si attraversa in solitudine. L’unico a potermi recensire, forse, sono io stesso. E non sempre: solo in rari momenti, quando il tempo si fa specchio e io posso voltarmi a guardare il cammino compiuto senza smarrire quello ancora da percorrere. Ma anche allora la recensione è un esercizio di perdita, un frammento di approssimazione. Altrimenti, meglio il silenzio: che a volte dice più di qualsiasi parola.